A.A.A. - D.S.A. - Dislessia, un limite da superare

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venerdì 27 gennaio 2012

Se il rifiuto della scuola non è soltanto timidezza

Bambini e adolescenti: lo sviluppo dei disturbi ansiosi dipende molto dalla qualità del legame con i genitori

Corriere della Sera  -LA RICERCA
ambini e adolescenti: lo sviluppo dei disturbi ansiosi dipende molto dalla qualità del legame con i genitori

Possibile che un bambino di neppure dieci anni soffra di un disturbo d'ansia? Certo, e non è neppure un'eventualità troppo remota: secondo i dati raccolti di recente su circa 3500 bambini di nove anni da Francesca Neri e Renata Nacinovich, della Clinica di neuropsichiatria dell'infanzia e l'adolescenza dell'Università di Milano Bicocca presso l'ospedale San Gerardo di Monza, circa il 10 per cento dei ragazzini presenta tratti d'ansia.
La ricerca, che ha coinvolto sei Cliniche di neuropsichiatria infantile italiane ed è la più ampia mai svolta per valutare la diffusione dell'ansia fra i preadolescenti, dimostra che in questa fascia d'età la frequenza dei disturbi è molto simile fra maschi e femmine. Inoltre, sono stati identificati i fattori che più facilitano la comparsa del problema. Se infatti è ormai indubbio il peso della genetica, così come il ruolo di eventi negativi precoci (dall'abbandono, ai lutti in famiglia), lo studio italiano punta il dito anche contro altri elementi che hanno un impatto non irrilevante: i bambini con genitori separati o single hanno, ad esempio, una probabilità del 50 per cento più alta di sviluppare ansia, ma sono a rischio più elevato pure i bimbi di famiglie numerose (con più di 4 membri) o i figli di donne che non lavorano.
«L'ansia dipende molto dall'insicurezza e dalla "bontà" del legame di attaccamento con i genitori — spiega Francesca Neri —. Esistono coppie separate che riescono a dar vita a una "coppia genitoriale" comunque efficace, coesa, i cui figli non si sentiranno mai insicuri e, d'altra parte, esistono genitori pessimi nonostante il matrimonio. Tuttavia, le coppie brave a separarsi "bene" non sono né la norma né la maggioranza, per cui sui grandi numeri i figli di separati, divorziati e single risultano più a rischio d'ansia». «Quanto ai bimbi con molti fratelli e sorelle, — prosegue Neri — è probabile che soffrano di maggiori insicurezze; le madri che non lavorano, infine, avendo investito molto sui figli forse trasmettono loro un carico maggiore di preoccupazione. Di certo, il contesto in cui vive il piccolo è fondamentale, per questo parliamo sempre e a lungo con i genitori dei nostri pazienti». Nei bambini e negli adolescenti i disturbi d'ansia più comuni sono l'ansia da separazione (che insorge specificamente nell'infanzia), l'ansia generalizzata, il disturbo di panico, le fobie specifiche, la fobia sociale. Alcune paure sono normali e fisiologiche, e scompaiono con la crescita: è il caso ad esempio dell'angoscia nei confronti dell’estraneo, caratteristica dei piccoli di otto-nove mesi; delle paure degli animali grossi e divoratori, verso i due-tre anni, o dei piccoli animali come insetti e ragni, caratteristica intorno ai quattro-sei anni. Altrettanto frequenti e del tutto nella norma sono una transitoria paura del buio o della scuola; in adolescenza sono usuali (e passeggeri) i timori relativi al corpo, alla sua forma e integrità, alla normalità dei caratteri sessuali secondari.
Prendiamo, ad esempio, il tipico caso del bimbo che non si stacca dalla mamma quando deve andare a scuola: «È del tutto normale che un bambino faccia storie per qualche tempo nella fase di inserimento all'asilo nido e alla scuola materna — osserva Renata Nacinovich —. Ma se mesi dopo l'inizio della scuola ogni mattina è ancora una tragedia, allora è il caso di valutare se non ci sia un’ansia da separazione o correlata alla scuola. E successivamente, alle elementari, alle scuole medie o alle superiori, il rifiuto scolastico o "fobia scolare" può essere legata a questo tipo di disturbo d'ansia o essere associata alla fobia sociale, che "costringe" il bambino o l'adolescente a evitare tutte le situazioni in cui teme di mostrare le sue incapacità e di essere giudicato, umiliato.
La fobia sociale è abbastanza comune fra i bambini ed è molto diversa dalla timidezza: un bimbo timido non prende l'iniziativa per giocare, ma riesce a stare con gli altri se viene sostenuto da un’educatrice o introdotto da un amichetto; il bambino che soffre di fobia sociale non si convince con nulla». Una recente ricerca statunitense su oltre 10 mila adolescenti dai 13 ai 18 anni conferma che timidezza e fobia sociale non corrono il pericolo di essere confuse, né c'è il rischio tanto paventato da molti di "curare la timidezza": solo il 12 per cento dei timidi rispetta i criteri per la diagnosi di fobia sociale, e c'è un 5 per cento di non timidi che invece è fobico. Ma quali sono i campanelli d'allarme a cui i genitori (soprattutto quelli "a rischio", secondo i parametri individuati dai ricercatori italiani) devono prestare attenzione? «Bisogna insospettirsi se il bambino fa molta fatica ad adattarsi ai cambiamenti e manifesta segnali evidenti di disagio: sintomi psicosomatici ricorrenti come mal di testa o mal di pancia, rifiuto a uscire o andare a scuola, difficoltà a dormire, tendenza a isolarsi mascherando il rifiuto sociale con interessi "solitari" come i videogiochi — dice Nacinovich —. Occorre intervenire presto, perché quando i comportamenti condizionati dall'ansia si cronicizzano sono sempre più complicati da eliminare». Purtroppo, con i più piccoli è molto facile equivocare e non rendersi conto che certi atteggiamenti potrebbero nascondere un problema: accade, ad esempio, che i genitori ritengano solo molto tranquillo e magari un po' solitario un bambino che in realtà ha una fobia sociale, allarmandosi davvero soltanto quando il figlio non vuole più andare a scuola. Inoltre, molti piccoli somatizzano l'ansia, quindi prima di pensare a un disagio emotivo i genitori spesso li sottopongono a innumerevoli visite pediatriche. «Una volta arrivati alla diagnosi, in prima battuta si sceglie un lavoro di sostegno psicologico o, se è necessario, una psicoterapia a orientamento psicodinamico, coinvolgendo sempre anche i genitori: a volte basta "trattare" mamma e papà per veder stare bene il figlio. Ai farmaci si ricorre se il disturbo è molto invalidante, ad esempio se il bambino o l'adolescente non frequenta più la scuola, non esce. Ma i farmaci non si usano mai da soli, o come prima scelta» conclude Neri.
Elena Meli

giovedì 26 gennaio 2012

Associazione D.S.A. - Dislessia, un limite da superare - La sua prima candelina

Ad un anno dalla sua nascita il Comune di San Giorgio a Cremano sul giornalino del comune "SpazioComune  - Magazine", assegna alla pagina dedicata al Terzo Settore un ampio spazio all'Associazione D.S.A. - Dislessia, un limite da superare.
Ad un anno dalla sua nascita il Comune di San Giorgio a Cremano sul giornalino del comune "SpazioComune  - Magazine", assegna alla pagina dedicata al Terzo Settore un ampio spazio all'Associazione D.S.A. - Dislessia, un limite da superare.

martedì 24 gennaio 2012

Intervista a Giacomo Stella: Dislessia, a Modena colpite 2500 persone «Norme da rivedere»

Gazzetta di Modena del 24-01-2012

MODENA. La dislessia è un tema di forte attualità. Se ne dibatte tra gli esperti per conoscere la vera incidenza della sindrome che a Modena colpisce 2500 persone. Di queste, solo1366 hanno ottenuto una certificazione. Le altre o sono in attesa o ancora non sanno di essere colpiti dalla dislessia. Per capire occorre fare chiarezza. «La dislessia - spiega il professor Giacomo Stella, ordinario di psicologia clinica all'Università di Modena e impegnato nella dislessia già nel 1997, quando fondò l'Associazione Nazionale Dislessia - nasce da una piccola anomalia di alcune aree del cervello, causando una neurodiversità che ostacola l'apprendimento della lettura e della scrittura». Naturalmente queste piccole anomalie generano difficoltà maggiori o minori a seconda della natura del sistema ortografico: «Sfavoriti sono gli inglesi, che hanno di fatto venti vocali diverse ma sempre cinque lettere a disposizione per rappresentarle. Noi in Italia, calcolando la e aperta e chiusa, ne abbiamo solo sette, si può dire che siamo avvantaggiati. Ecco perché in Inghilterra si parla di dislessia dal 1940, con 50 anni di anticipo rispetto a noi». Quando si scopre la dislessia? «I bambini italiani imparano la lettoscrittura al 95 per cento entro la prima elementare. Ma la sanità italiana dice di non porre diagnosi su eventuali disturbi prima della fine della seconda elementare. In questi ultimi periodi sono stati detti tanti numeri, troppi o troppo pochi. Io mi fiderei delle ricerche epidemiologiche: l'incidenza è del 3,1 per cento. Ciò significa che in Emilia Romagna, su una popolazione di 580mila studenti tra i 6 e i 18 anni, ci sono circa 15mila dislessici. Il nostro Ufficio Scolastico è all'avanguardia, tanto che ha avviato un'ulteriore indagine tra le scuole, che ha trovato notevole partecipazione proprio nella nostra città. Quanti sono i bambini che sanno di essere dislessici in Emilia Romagna? Novemila. Significa, a conti fatti, che ce ne sono 6mila ancora da riscontrare: quasi un bambino su tre è dislessico ma non è ancora riconosciuto». Stella spiega cosa accade: «Il problema è serio, determina grandi sofferenze. Il bambino che non apprende viene considerato pigro e svogliato. Nessuna di queste cose è vera. I dislessici sono intelligenti per definizione. Per diagnosticare la dislessia l'efficienza intellettiva del soggetto deve essere nella norma. È molto importante che si arrivi ad una diagnosi chiara». Da diversi anni per fortuna l'Emilia Romagna è all'avanguardia in questo campo. Qui esiste il primo e unico servizio nazionale per gli studenti universitari: «Sono determinati, si laureano in tempo. Attualmente il centro segue 150 studenti dislessici solo nella nostra università». Il problema di oggi sono i tempi della burocrazia: «I tempi di attesa - prosegue Stella - sono lunghi e la certificazione è necessaria per poter accedere alle misure dispensative e soprattutto all'utilizzo del computer in classe. La verità è che in questo momento il servizio sanitario non sembra in grado di rispondere ai bisogni delle famiglie, che non possono attendere dai sei mesi ad un anno per avere una risposta, così si perdono interi cicli scolastici ed anni di studio». E allora la soluzione da attuare qual è? «Migliorare l'integrazione tra centri pubblici e centri privati - conclude il professor Stella - Se è vero che la sanità, in questa fase, non può allargare il cordone della borsa, ci dovrebbe essere un'apertura verso i privati per accreditare i percorsi che la Regione ritiene opportuno costruire. E invece, purtroppo, non siamo ancora di fronte ad una normativa per i disturbi specifici di apprendimento, come la dislessia. In Liguria e Lombardia, invece, questo già succede. L'Italia i dislessici non se li sta inventando, esistono davvero».
di Davide Berti

Dislessia, ombrello diagnostico inflazionato?

Il Resto del Carlino del 23-01-2012
Dislessia, ombrello diagnostico inflazionato? Etichetta che racchiude senza distinguo le diverse graduazioni riscontrabili nei DSA (Disturbi Specifici di Apprendimento), intrecciandoli arbitrariamente all'ADHD (la sindrome dell'attenzione e dell'iperattività)? Di fronte a statistiche che valuterebbero il 23% dei bambini dai 3 ai 10 anni, a Roma, a rischio DSA, da un lato, ed a analisi più prudenti che riducono al 4% tale stima, occorre, a mio avviso, fare un passo indietro. Perché l'interesse dei bambini di avere la massima attenzione e le maggiori opportunità di benessere psico-fisico non può ridursi alla gelida statistica. I bambini sono individui, non numeri e vetrini da microscopio, ed è fondamentale, per loro, il giusto stimolo atto ad assicurare il massimo dispiegamento delle loro potenzialità. Casa e scuola hanno un ruolo centrale. Ma fin qui, tutto ciò è lapalissiano, la base di ogni teoria pedagogica. Ciò che manca è il passaggio alla pratica quotidiana. Che dovrebbe avvenire con l'intervento sinergico di un'equipe scolastica permanente, che si avvalga delle competenze di insegnanti, psicologi, neuropsichiatri infantili, sia per limitare «sentenze diagnostiche» superficiali, sia per rendere omogeneo l'approccio educativo nei riguardi dei bambini stessi, siano o non siano affetti da dislessia o altri disturbi classificabili come DSA o ADHD. Questo anche per evitare confusioni, indicazioni disorientanti ai genitori, metaforiche bollature di «diversità» ai bambini. Il che genera un'ipotesi d'intervento. ESISTE UN METODO, messo a punto da un medico di Philadelphia, Glenn Doman, che oltre cinquant'anni fa si dedicò al recupero dei bambini cerebrolesi. Apparentemente, può sembrare eretico raffrontare le due situazioni che convergono solo nel fatto che si applicano a bambini; le procedure e i protocolli previsti da Doman, però, «lavorano» sul cervello del bambino affinché si accendano tutte le aree, si dispieghino le potenzialità, dunque, agisce indipendentemente dalla presenza di un handicap. E' anzi, democraticamente applicabile a tutti i bambini, e già avviene negli USA, ottimizzandone le capacità. In Italia, il metodo Doman ha il suo fulcro negli Istituti per il Raggiungimento del Potenziale Umano Europa, a Fauglia (Pisa), luogo dove si applica il Metodo solo nel settore del recupero. Non è escluso, però, di ampliarne le competenze come negli USA.

«Mio figlio non sa leggere». Così trent'anni fa esordì lo sceneggiatore Ugo Pirro ...

La Nazione del 23-01-2012
«Mio figlio non sa leggere». Così trent'anni fa esordì lo sceneggiatore Ugo Pirro in un libro-confessione che ha fatto storia. Per la prima volta il grande pubblico prendeva coscienza dei disturbi specifici dell'apprendimento, ragazzi con un quoziente intellettivo nella media ma con più o meno grosse difficoltà di lettura, scrittura e calcolo. Genitori disorientati, percorsi di crescita travagliati. Occorre trovare la propria strada, pensiamo a quante celebrità dell'arte, campioni dello sport e scienziati illustri hanno dovuto fare i conti con qualche inciampo scolastico. Ora, con le conoscenze attuali, è possibile superare gli scogli ed eccellere, anche dopo il diploma di scuola media. «Sono ancora pochi gli studenti con disturbi dell'apprendimento che frequentano gli atenei afferma Giacomo Guaraldi, autore con Paola Pedroni e Margherita Moretti Fantera del libro Al diploma e alla laurea con la dislessia, edizioni Erickson ma il loro numero, grazie alla legge 170 e successive linee guida, è in incremento. Abbiamo così deciso di ascoltare la loro voce». Matteo, studente del corso di laurea in Biotecnologie, si esprime così: «Il mio percorso scolastico è stato segnato da enormi difficoltà. Ma ho compreso che, se opportunatamente aiutato, io posso, se non guarire, almeno migliorare e costruire il mio progetto di vita, fino appunto ad arrivare alla laurea». DISTURBI come la dislessia non rappresentano motivo di disagio solo per il soggetto interessato ma anche per gli educatori e le famiglie, fondamentale non cadere nella trappola dei viaggi della speranza, inseguendo il miraggio di qualche cura improbabile. Stiamo aggrappati alle istituzioni e al volontariato. Ne è convinta Maristella Craighero, dinamica vicepresidente dell'Associazione italiana dislessia, sede a Bologna e sezioni in tutta Italia (www.aiditalia.org). L'ultimo convegno su questi temi si è tenuto a Vicenza, tra i relatori Giacomo Stella, docente di psicologia dello sviluppo cognitivo, uno dei padri fondatori dell'associazione. Da segnalare un servizio unico in Italia nella diagnosi di questi disturbi: è a Reggio Emilia, coordinato da Enrico Ghidoni, responsabile del laboratorio di neuropsicologia presso l'Arcispedale Santa Maria Nuova. TRA LE ALTRE proposte che si annunciano per i prossimi mesi, il centro Fare (Centro formazione abilitazione ricerca educazione) ha promosso a Perugia corsi per genitori di figli dislessici. Gli esperti del team di ascolto aiutano a capire i rapporti con figli, fratelli e amici, le relazioni famiglia-scuola, e strumenti per la gestione e pianificazione dei compiti. Altra iniziativa a Maranello, dove Daniela Lucangeli, professore di psicologia dello sviluppo all'Università di Padova, ha trattato lo «scoglio» della matematica, preludio a un ciclo di incontri del distretto di Sassuolo.
Info su
www.getgianburrasca.it alessandro.malpelo@quotidiano.net
di Alessandro Malpelo

Svogliati o disabili l'apprendimento richiede gli strumenti giusti

Il Resto del Carlino del 23-01-2012
BOLOGNA. Quale è la differenza tra un alunno svogliato (il somaro della classe) e un altro che presenta una malattia che gli impedisce di imparare? Il primo può e deve essere recuperato mediante un intervento familiare, pedagogico e psicologico. Il secondo ha bisogno degli strumenti della pedagogia speciale, dell'abilitazione e riabilitazione. La lettura comporta per alcuni bambini una difficoltà enorme, che può essere superata mediante strumenti vecchi, come ad esempio la scrittura a grandi caratteri, e nuovi, come la lettura con voce sintetizzata e piacevoli giochi educativi al computer. L'Associazione Italiana Dislessia (www.aiditalia.org) può aiutare a orientarsi. L'INTERVENTO deve essere il più precoce possibile, perché sia più efficace il recupero. Accelerando i tempi della diagnosi si può incorrere più facilmente in errori di valutazione, ma si tratta di ausili (non farmaci) che facilitano il compito a chiunque senza recare danno a nessuno. Volendo essere precisi, la dislessia nella classificazione internazionale delle malattie dell'OMS viene rubricata come disturbo specifico della lettura, e si trova spesso associata agli altri disturbi specifici dello sviluppo: oltre la metà di questi bambini presentano anche disturbo specifico della scrittura (disortografia), poco meno della metà presentano anche disturbo specifico delle abilità aritmetiche (discalculia) e altri ancora disturbi misti delle abilità scolastiche. Nella stessa classificazione i disturbi specifici vengono contrapposti ai disturbi autistici ed evolutivi globali, come l'autismo, che pervadono in modo generalizzato tutto lo sviluppo psicologico. Ma il fatto che siano specifici di una funzione li rende comunque insidiosi: il bambino che ne è affetto fatica moltissimo a leggere e questo si traduce in un apprendimento scarso nelle diverse materie scolastiche. Se non si provvede con strumenti adatti si rischia fortemente di avere un bambino privo di autostima, disadattato, l'handicappato della sua classe. La dislessia colpisce circa il 3-4 per cento dei bambini, ma il confine fra disabilità e normalità è convenzionale, spesso difficile da distinguere: non esiste come per l'infezione tubercolare l'esame di laboratorio che possa trovare il bacillo, anche se in un quinto dei casi una recente ricerca ha ritrovato un gene che potrebbe spiegare un'organizzazione difettosa di alcune aree del cervello, quindi la genetica della dislessia. Anche l'osservazione epidemiologica accerta una familiarità di questo disturbo. Nonostante la quantità dei bambini colpiti, circa uno per classe, poco si è fatto per aiutarli: soltanto con la legge 170 del 2010 si è provveduto a organizzare un intervento per riconoscere l'esistenza di questi disturbi precocemente e per trattarli. Le équipe multidisciplinari che accertano la disabilità degli alunni a norma della legge 104 del 1992 spesso non sono consultate: un terzo dei casi esistenti viene diagnosticato e anche quando la diagnosi viene effettuata, soltanto con l'applicazione della recente legge si può provvedere a effettuare gli interventi che l'Istituto Superiore di Sanità, le Società scientifiche e le Associazioni dei genitori consigliano di fare. Ora che finalmente la strada è aperta, occorre percorrerla senza esitazioni, per dare a questi bambini la possibilità di annullare o almeno ridurre la loro disabilità.
di Carlo Hanau
Docente di statistica medica e programmazione dei servizi sociali e sanitari Università di Modena e Reggio Emilia