A.A.A. - D.S.A. - Dislessia, un limite da superare

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giovedì 14 febbraio 2013

DSA E LA MATEMATICA

Il Disturbo Specifico dell'Apprendimento e la matematica

Tutti ci siamo formati una convinzione personale sulla matematica, derivante dai propri percorsi scolastici. E, anche se non lo sappiamo, tali nostre convinzioni, ovviamente frutto di interpretazioni, costruiscono i modi in cui prendiamo le decisioni di fronte ai problemi. Il che significa che i nostri figli, a loro volta, creano, a scuola, gli schemi secondo i quali affronteranno le proprie esperienze. In particolare, quando sono alle prese con la matematica.

Il rapporto con la matematica crea vere e proprie ideologie: la più diffusa consiste nel pensare che, in matematica, quel che conta sono i risultati - il prodotto - e non i percorsi con cui si arriva ai risultati, per cui, se il risultato è sbagliato, significa che tutto il percorso è sbagliato. Perché la matematica non viene pensata come un insieme di processi, che sottostanno a quel risultato numerico finale. Quale invece essa è.

La componente affettiva, emozionale, inoltre, è fattore importantissimo nell’apprendimento della matematica. E, si badi bene: le ansie, le paure, di fronte alla matematica non sono direttamente il frutto della frustrazione per gli errori, ma, più fortemente, esse sono il frutto del tipo di interpretazione che l’alunno va a dare della propria esperienza in matematica, quindi della propria percezione della materia. Vista come disciplina su cui non riesce ad esercitare alcun controllo.

Ora, è evidente che tale percezione gli deriva, a sua volta, dal modo in cui, nel suo ambiente scolastico, si reagisce di fronte agli errori da lui commessi. In pratica: non si forniscono al bambino situazioni che gli permettano di credere ancora nelle proprie capacità. E questo, perché, nell’insegnamento, si dà molto risalto all’errore, visto come il risultato finale di mancanza di conoscenze, senza che si approfondisca quel determinato percorso risolutivo, prescelto e attuato, pur se errato. Quindi, l’errore non viene interpretato, ma liquidato con l’interpretazione della presunta mancanza di conoscenze da parte dell’alunno, e non si valuta il fatto che, spesso, dietro un errore, ci sono importanti percorsi del pensiero: i “misconcetti”, o interpretazioni distorte di un concetto, messi a fuoco da ricercatori (per es.: Brown e Burton).

Interpretare gli errori diventa quindi punto saliente per l’insegnante di matematica della scuola primaria e per chi opera nella cura del DSA.

È un’operazione doppiamente fruttuosa:
spolarizza rispetto agli errori,
comunica, trasmette, al bambino il lavoro di ricerca.

In altri termini: l’errore diventa il punto di partenza per un lavoro sui processi risolutivi, abbassando, conseguentemente, la possibile ansia dell’insegnante. Perché l’errore non è più visto come il fallimento del bambino, ma come la spiegazione dei suoi percorsi di pensiero. Spiegazione derivante da interpretazione, certo, ma sempre da vivere come possibile spiegazione. Pur con possibilità di ripensamento, perché ipotesi. Che è ottimo strumento pedagogico, e psicologico, per creare nel bambino un atteggiamento costruttivo verso gli errori, in particolare, e verso la matematica, in generale. Insomma una battaglia contro l’ansia, una costruzione di una sana “ideologia” verso la matematica da parte del bambino, una alta considerazione delle componenti affettive nella soluzione dei problemi. 
Perché il percorso risolutivo (metacognizione), l’idea che l’alunno si fa della matematica (convinzione) e le emozioni (affettività del bambino) agiscono sempre nell’apprendimento e nella produzione matematiche. Si può quindi costruire uno schema di riferimento per chi operi nella rieducazione del DSA, o, comunque, nel “recupero” delle difficoltà matematiche. Questo schema è ovviamente molto duttile, e la sua caratteristica si basa su una visione dinamica, dialettica dell’errore: che viene letto come prodotto personologico, non isolato, cioè riferito al rapporto bambino/compito assegnato. Per quanto si è fin ora detto,

Proponiamo, quindi, lo schema:
Interpretazione dell’errore.
Individuazione del pensiero, ritenuto alla base dell’errore.

L’errore va inserito all’interno della concezione del problema, o metaconcezione: a differenza dell’esercizio, il problema richiede un’inventiva, una creatività personale, e determina un rapporto tra compito da eseguire e soggetto risolutore. Dove il soggetto diventa consapevole del proprio potere di esecutore: ruolo, questo che può essere vissuto non necessariamente in modo ansioso. Al contrario, è importante stimolare la percezione di questo ruolo attivo, che è ruolo di potere. L’errore può non inquinare tale ruolo. L’errore deve essere cercato nel
Processo di risoluzione, articolato in:

pianificazione;
esecuzione;
controllo.

Cioè: le scelte di strategie, le decisioni per raggiungere una mèta. Dove va sottolineata la cura e la calma nella lettura del testo proposto.Cura e calma che rientrano nella percezione del proprio potere operativo. E contro le ansie, che spingono spesso a una lettura frettolosa e parziale del testo proposto dall’insegnante. Ma va sottolineata anche l’importanza dell’attività strategica, tesa a trovare le possibili soluzioni. Perché lì si attivano i processi di elaborazione. Che, se anche errati, sono la rappresentazione di quell’alunno. Che ci indica dove l’insegnante e il rieducatore devono intervenire. Per far sì che le difficoltà si superino. Perché le difficoltà sono date da fallimenti ed errori che si ripetono. Quindi, come dicevamo, interpretazione dell’errore, che significa interpretazione di percorso di soluzione e non interpretazione di risultati. Questo implica la necessità di considerare, in questo processo, anche
Le abilità metacognitive, articolate in:

consapevolezza delle proprie risorse;
regolazione del comportamento, cioè attivazione dei processi di controllo. L’alunno specializza, rende specifico il proprio agire rispetto al compito che gli viene sottoposto. Le prestazioni scolastiche migliorano quando si riesce ad attivare una consapevolezza e una capacità dei processi di controllo: per esempio la presa di coscienza della propria eventuale lentezza. Perché abitua il bambino a mediare tra se stesso e le esigenze che il compito impone. Un rapporto dialettico, insomma, dove il bambino si pone verso se stesso in posizione dinamica, di richiesta, cioè, di cambiamento.

L’insegnante e il rieducatore si pongono quindi, di fronte alle difficoltà matematiche di un bambino, come di fronte a un problema. Anche loro seguiranno questo percorso diproblem solving: consapevolezza e regolazione delle proprie energie, anche in termini emotivi, oltre che necessità di sperimentare strumenti, anche nuovi. Perché l’individuo è interprete dell’esperienza e non la subisce.

Di tutto questo, e anche del mio lavoro sul DSA, sono “moralmente” debitore nei confronti di Rosetta Zan, del Dipartimento di Matematica di Pisa: affascinante e lucida, oltre che attenta ai risvolti umani, la sua ricerca su matematica e metacognizione

Ma, a questo punto, e coerentemente con quanto sopra, si impone un’altra considerazione, che riguarda l’uso di strumenti compensativi nella rieducazione del DSA.
Il loro uso dovrebbe essere inteso come provvisorio,
non come compensazione ma come ausilio,
come eventuale sostegno psicologico contro l’ansia.

Soprattutto per la matematica.
Perché la ricerca, il percorso risolutivo, deve avere la priorità didattica rispetto all’ansia del prodotto e della soluzione, e deve essere trasmesso al bambino “in difficoltà” come un valore di cui appropriarsi. Per controbilanciare, o compensare, qui davvero il termine è appropriato, le difficoltà scolastiche con strumenti endogeni e non con materiale esogeno. Il compito del rieducatore, come quello dell’educatore, è di risolvere le difficoltà, intese come ripetizione degli errori e dei fallimenti.

L’uso di materiale compensativo dichiara il fallimento dell’insegnamento. Intendiamoci: niente è vero al cento per cento. Quindi che lo si usi, il materiale compensativo, quando serve o si ritiene che serva anche per proprie sicurezze da parte dell’insegnante! Lo si consideri però uso provvisorio e si rifletta bene sul fatto che non si potrà mai dire che quel bambino con DSA non riuscirà mai a fare quel determinato compito (che sia lettura o matematica non importa), per il cui finale risultato gli si consegna il materiale compensativo. Perché non si ricompenserà mai delle frustrazioni derivanti. Anche se lui sarà, apparentemente, contento della calcolatrice o del libro parlante. Molto spesso, le difficoltà matematiche riscontrate nei bambini con DSAriguardano l’esecuzione delle operazioni (addizione, moltiplicazione, ecc.)

Ebbene, l’uso della calcolatrice, a volte, è utile. Delegare, definitivamente, le operazioni matematiche alle calcolatrici è il fallimento della rieducazione del DSA. Perché non interessa tanto il prodotto di quel calcolo matematico, quanto il percorso di esecuzione.

Dott. Roberto de Pas
Tratto da 
http://www.curarelabalbuzie.it/dsa-e-la-matematica.html

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